Cattura e sequestro della CO2: perché non può essere la soluzione
Fonte: rinnovabili.it - Ambiente - Cambiamenti Climatici
La CCS o CCUS, viene spesso citata tra i pochi assi nella manica rimasti per mitigare il cambiamento climatico. Ma la Fisica e l’Economia ne svelano tutti i limiti. Anatomia a puntate di una tecnologia dalle troppe aspettative malriposte (e malinformate)
Il Pianeta non se la passa certo bene: la Crisi climatica, quella della biodiversità e quella socioeconomica conseguente stanno cominciando a scatenare i loro impatti in modo più concreto, dopo decenni in cui la Scienza li aveva previsti con precisione e largo anticipo. Allarmi per lo più inascoltati, accompagnati da annunci definiti “ambiziosi”, ma di fatto svuotati di significato, a cui non hanno fatto seguito azioni concrete. Ma come farà allora l’umanità a mitigare il Climate Change che lei stessa ha contribuito a creare? Rinnovabili? Diminuzione degli sprechi, dei consumi e della produzione? Efficienza energetica e dei processi industriali? Transizione Ecologica? Insieme a queste soluzioni, oggi considerate da Governi e Istituzioni troppo dispendiose sia in termini economici che elettorali, viene spesso citata una tecnologia in particolare: la cattura, il sequestro e l’utilizzo del carbonio (CCS o CCUS); o meglio: dell’anidride carbonica emessa dai processi energetici e industriali, trasporto di merci, riscaldamento residenziale e tutti gli altri settori economici che liberano gas serra. La sensazione, tuttavia, è che talvolta si parli del suo ruolo di possibile – quando non probabile – game changer nella lotta al cambiamento climatico, non con il rigore della fisica, ma con l’astrattezza dell’auspicio.
Con questo focus proveremo a esaminare i numeri della CCS e cercheremo di capire per quale ragione non ha senso (almeno in questo momento), parlarne come una tecnologia in grado di risolvere gran parte dei problemi che la Crisi climatica impone. NB: ciò non vuol affatto dire che in futuro la CCS non potrà avere alcun impiego nella mitigazione del Climate change, quanto piuttosto che il ruolo che media e Governi paiono aver affidato a questa tecnologia ancora poco matura, è largamente sovrastimato. I motivi sono da un lato puramente termodinamici e dall’altro economici e connessi al mercato. Con la prima puntata ci occuperemo proprio di questi ultimi aspetti legati alla fattibilità degli impianti di CCS su larga scala, non senza prima aver introdotto a grandi linee la tecnologia. La prossima approfondirà invece l’economia della cattura del carbonio applicata alla produzione di elettricità fossile, che, come vedremo, a oggi è poco sostenibile e soprattutto non competitiva con quella rinnovabile.
Cos’è la Carbon Capture e perché non è quel che pensate
Iniziamo da due acronimi: CCS e CCUS. Vi ci sarete senza dubbio imbattuti in qualche articolo sulla Transizione Energetica; lo stesso Ministro Cingolani ne parla non di rado. Entrambi sono usati per descrivere la Carbon Capture (Utilization) and Storage: una tecnologia che permette di catturare l’anidride carbonica generata da attività umane altamente impattanti sul bilancio energetico del Pianeta quali centrali termoelettriche a carbone, a gas, ciclo di produzione della plastica, del cemento, dell’alluminio e dell’acciaio. La cattura avviene grazie a reazioni chimiche ed è “puntuale”, ovvero si verifica proprio nell’istante e nel luogo in cui la CO2 viene emessa.
Piccola ma fondamentale nota: la CCS non è affatto la rimozione e il sequestro dall’atmosfera della CO2 (o di altro gas a effetto serra), che si chiama invece Direct Air Capture and Carbon Storage (DACCS) e funziona in maniera completamente diversa. Complici media non troppo attenti ed Istituzioni spesso poco informate, in Europa capita spesso che CCS e DACCS vengono confuse o non distinte. Il processo di CCUS invece, oltre a catturare la CO2 ed immagazzinarla in depositi geologici, si propone di riutilizzarla come reagente per la produzione di composti chimici, plastici o combustibili. Insomma, CCUS e CCS (da ora in poi ci riferiremo a quest’ultimo acronimo per brevità), sembrerebbero tecnologie apparentemente semplici e straordinariamente efficaci. Verrebbe da chiedersi allora: perché ogni impianto di produzione energetica o industriale del mondo non la implementi e al contrario esistano poche decine di stabilimenti funzionanti in questo momento?
La “scalabilità” non è ancora stata dimostrata
Veniamo al primo dato, crudo ed eloquente: sono 28 gli impianti di cattura del carbonio funzionanti oggi in tutto il mondo, dalla capacità di assorbire lo 0,1% delle emissioni annuali – circa 37 Megatonnellate, ovvero 37 milioni di tonnellate. Ciò che stupisce è che solo 7 Megatonnellate di CO2, il 19%, è effettivamente catturata, mentre la maggior parte è impiegata per produrre altro petrolio e composti che riemetteranno CO2 in un loop che solo gli esseri umani potrebbero concepire. Al momento, la scalabilità della CCS non è stata provata, visti i pochissimi casi di implementazione e non sembra avere davvero applicazioni, se non quella di permettere la produzione di altro combustibile fossile. A queste conclusioni giunge l’Intergovernmental Panel on Cimate Change (IPCC) nel suo Special Report del 2018 “Global Warming of 1.5 °C”, in cui parla delle “incertezze nello sviluppo della CCS”. Gli scienziati in particolare avvertono sui rischi di farci troppo affidamento negli anni a venire visti “i problemi sulla sicurezza dello storage e l’antieconomicità” della tecnologia. C’è poi da affrontare il “non trascurabile rischio – proseguono gli esperti del Panel – di leakage (dispersione in atmosfera n.d.a.), di anidride carbonica nelle fasi di trasporto e di deposito geologico”. In breve: la CCS di oggi ci dice perché non sarà, con grande probabilità, la tecnologia di domani.