Il caldo nel 2019: così il clima è diventato emergenza mondiale
Fonte: IlSole24ORE - Temi Caldi
Si discute da decenni di cambiamento climatico, ma l’allarme ha iniziato a prendere quota solo dagli ’80. Oggi è al centro di agende politiche, tensioni internazionali, strategie economiche e mobilitazioni di massa. Che cosa vuol dire «riscaldamento globale»? E cosa rischiamo, ogni giorno, quando la temperatura sale più del dovuto?
L’ondata di calore che soffoca l’Europa sta infrangendo tutti i record possibili. Il 27 giugno, forse la data più critica, il termometro si proietta a sfondare i 40 gradi in Italia, Francia e Germania. Il 25 luglio la “replica”, con il record di Parigi, oltre i 42 gradi, ma valori simili in Nord Italia, Germania, Polonia: picchi al termine di una settimana torrida come mai. Il fenomeno ha scatenato un’allerta improvvisa, anche se il problema che lo ha causato è - letteralmente - nell’aria da anni.
Si chiama climate change, cambiamento climatico: l’aumento di temperatura indotto da emissioni di gas a effetto serra, come anidride carbonica (CO2) e metano (CH4), “grazie” alle attività inquinanti dall’uomo. Per fare qualche esempio, la combustione di fonti fossili come il petrolio, la deforestazione o gli allevamenti intensivi di animali.
Oggi sono in pochi a ignorare del tutto il significato di cambiamento climatico, se non altro rispetto agli standard di qualche decennio fa. Ma la consapevolezza di dove saremmo andati a finire ha iniziato a prendere forma in tempi non sospetti, con tanto di una data simbolica: il 1958.
È in quell’anno che Charles David Keeling, un geochimico della Pennsylvania, effettua la prima rilevazione sulla concentrazione di anidride carbonica dalla cima del Mauna Loa, un vulcano delle isole Hawaii che svetta a 4mila metri sul livello del mare.
Keeling era approdato lì come ricercatore dello Scripps Institution of Oceanography, un istituto di oceanografia, per registrare dalla somma del Mauna Loa i livelli di CO2 nell’atmosfera. I risultati, 61 anni dopo, sono messi nero su bianco sull’indicatore che porta il suo nome, la «curva di Keeling».
All'epoca si viaggiava a 315,3 parti di CO2 per milione di volume (ppm), una misura che indica quanti grammi di una certa sostanza sono presenti su un milione di grammi totale. Nel 2019, oltre 60 anni dopo la prima rilevazione di Keeling, il valore è schizzato ben al di sopra delle 400 parti per milione di volume.
La concentrazione dei gas a effetto serra ha iniziato ad aumentare in maniera evidente dalla Rivoluzione industriale dell'800, ma negli ultimi 50 anni la situazione è sfuggita ancora più di mano. La temperatura globale è cresciuta di 0,8 gradi celsius dal 1880 ad oggi, secondo dati Nasa, ma circa due terzi del riscaldamento si è consumato solo dal 1975 ad oggi: un tasso di crescita dello 0,15-0,20 gradi centigradi a decennio.
Con questo ritmo, avverte il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc), si potrebbe registrare una crescita di 1,5 gradi centigradi tra il 2030 e il 2052. La soglia, già critica, rischia di essere sfondata ancora. Alcuni dati parlano di un incremento tra i 2,8 e i 5,6 gradi centigradi nell'arco di 85 anni.
Cosa vuol dire? Un innalzamento della temperatura già oltre i 3-4 gradi centigradi significherebbe carenza di cibo e acqua potabile, inondazione delle zone costiere e decuplicazione della frequenza di eventi estremi rispetto ai valori del 2010.
Da dove arriva l’inquinamento, che cosa stiamo rischiando
I primi studi sul climate change risalgono al XIX secolo. La disciplina ha iniziato a essere codificata negli anni '50 del secolo scorso. Sarebbero serviti almeno tre decenni prima che l'emergenza venisse percepita come tale nel dibattito pubblico, superando un muro di scetticismo rimasto in piedi da allora. Si legge spesso che qualsiasi cittadino è responsabile del climate change, perché contribuisce indirettamente alle emissioni e al riscaldamento dell'atmosfera. Può sembrare una frase fatta, ma non lo è. Le emissioni inquinanti provengono da servizi e tecnologie che usiamo abitualmente, anche (ma non solo) quando ci spostiamo su gomma o accendiamo un condizionatore.
L'Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti stima che il 76% delle emissioni derivi dalla CO2, il 16% dal metano, il 6% dall’ossido di diazoto, più un ulteriore 2% dagli F-gas. Andando ai settori di provenienza, il 25% delle emissioni globali arriva da elettricità e sistemi di produzione calore, il 21% dall'industria, il 24% da agricoltura e deforestazione (tagliando alberi si elimina una fonte di assorbimento della CO2), il 14% dai trasporti, dalle auto agli aerei, il 6% dalle abitazioni. I dati esatti variano poi da paese a paese.
Ad esempio sia negli States che in Europa i trasporti incidono in maniera molto più netta sulle emissioni, con un’incidenza pari rispettivamente al 29% e al 27% del totale.
I negazionisti del cambiamento climatico, come vengono chiamati da alcuni, liquidano le percentuali come una forma di allarmismo. Eppure le conseguenze del fenomeno sono visibili anche a occhio nudo, con o senza statistiche sullo sfondo: lo scioglimento dei ghiacci nelle zone artiche e antartiche, con successivo innalzamento del livello dei mari, dilatazione degli oceani, erosione delle regioni costiere e inondazioni; il moltiplicarsi dei fenomeni metereologici estremi; deterioramento sulla qualità dell'aria e concentrarsi delle precipitazioni in periodi delimitati dell'anno; carestie e periodi di siccità, con conseguenze deleterie sulla sicurezza del cibo e delle risorse idriche.
Eventi che possono accedere fenomeni di conflittualità politica o le cosiddette «migrazioni climatiche», in particolare in Africa. A pagare il conto sono soprattutto paesi già vulnerabili o con tassi elevati di povertà, dall'India alle nazioni sulle coste africane. Nel complesso, però, la perdita economica è di dimensioni ipertrofiche.
Uno studio pubblicato dalla rivista scientifica Nature rileva che il contenimento della temperatura entro gli 1,5 gradi centigradi, obiettivo dell'Accordo di Parigi del 2015, basterebbe a risparmiare l'equivalente di 20mila miliardi di dollari. Nel caso quell'asticella venga violata, però, i risparmi si trasformerebbero in esborsi.
Un celebre studio di Nicholas Stern, un economista esperto di cambiamento climatico, ha rilevato che il contrasto tempestivo dell’emergenza richiederebbe “solo” un investimento pari all’1-2% del Pil globale. Aspettando troppo, la cifra potrebbe salire al 20% del prodotto interno lordo del pianeta.
«Senza andare lontano, ricordiamoci che le alluvioni hanno prodotto in Europa danni per 100 miliardi di euro dal 1980 ad oggi, colpendo sei milioni di persone» spiega Carlo Barbante, direttore dell'Istituto per la dinamica dei processi ambientali e ordinario di Chimica analitica alla Ca' Foscari di Venezia. L'Italia non è esclusa, anzi: «Il Mediterraneo si sta trasformando in una regione arida. Le ondate di calore possono provocare incendi boschivi, incendi forestali e fenomeni di siccità che saranno molti frequenti. Con ricadute pesanti anche sull'economia» spiega Barbante.
Il caso della mobilità: viaggiare ancora, inquinare meno
I trasporti, lo abbiamo visto, hanno un’incidenza ancora relativa sulle emissioni globali. Ma il loro peso sta crescendo a un ritmo più rapido di quello di altri settori, compensando in negativo i risultati registrati altrove.
Un report dell’Agenzia europea dell’ambiente stima che il trasporto su strada abbia prodotto tra 1990 e 2017 un incremento netto di emissioni pari a 170 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (una misura che indica l’impatto sul riscaldamento globale di un certo quantitativo di gas a effetto serra rispetto alla stessa quantità di anidride carbonica), contro un calo parallelo di 433 milioni di tonnellate registrato dal settore dell’elettricità pubblica e della produzione di calore nello stesso periodo.
Sempre secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, il grosso delle emissioni arriva dai trasporti su strada (come auto o mezzi pesanti, responsabile del 72,1% delle emissioni nel 2016, seguiti da trasporto marittimo (13,6%) e trasporto aereo (13,3%, anche se in ascesa del 114% rispetto agli standard del 1990).
Sul banco degli imputati c’è soprattutto l’auto, capace di incidere da sola sul 44% delle emissioni nel segmento dei trasporti . Sull’onda di scandali come Dieselgate, la manipolazione dei dati sulle emissioni Volkswagen (anche se in questo caso di NOX, gli ossidi di azoto), i regolatori internazionali hanno aumentato il pressing sulle quattro ruote e inasprito le regole sul contenimento del suo impatto.
Il risultato è che l’industria si sta riconvertendo in chiave eco-compatibile, spingendo su prodotti a basso impatto (come le vetture elettriche) o adattandosi anche all’idea di un’auto fruibile come servizio, ad esempio con le piattaforme di car sharing: auto in condivisione, noleggiabili dal proprio smartphone in sostituzione di una vettura di proprietà.
Il salto progressivo all’elettrico sarà tutt’altro che indolore, anche in termini di tenuta dell’occupazione. Secondo dati di Acea, la European automobile manufacturers association, il segmento dell’auto dava lavoro nel 2016 a oltre 13 milioni di persone. Bisognerà capire quanto lavoro sarà rinnovato o estromesso con i nuovi cicli produttivi, ma la transizione è già nel vivo. Non è un caso se l’ultima edizione del Movin’On, un evento sulla «mobilità sostenibile» organizzato dal gruppo francese degli pneumatici Michelin, ha visto sfilare parecchi marchi di peso come General Motors, Audi, Bmw, Psa e Porsche. A margine, il solo colosso tedesco dell’automotive Volkswagen ha messo sul piatto 30 miliardi di euro entro il 2023 per l’elettrificazione delle sue vetture. «Non è ambizioso pensare di ridurre le emissioni, è che non abbiamo proprio scelta» ha detto in un briefing al Movin’On Florent Menegaux, l’amministratore delegato di Michelin. Un’altra domanda che aleggia è quanto il prodotto al centro della «rivoluzione ecologica», appunto l’auto elettrica, sia davvero immune da impatti ambientali.
Stefano Cernuschi, ordinario di ingegneria ambientale al Politecnico di Milano, fa notare la contraddizione in termine di auto «pulite» che marciano con energia elettrica prodotta alla vecchia maniera. «Se si continua a produrre energia elettrica con vecchi metodi e non si passa a forme di produzione energia decarbonizzate, una macchina a energia elettrica può migliorare l’aria locale. Ma non globale» fa notare Cernuschi.
La geopolitica del climate change
Lo sdoganamento finale è arrivato con l'ingresso della questione nelle agende della politica internazionale. Già nel 1995, come ha ricordato di recente l'Economist, la cancelliera Angela Merkel invitava la società tedesca a «non chiudere gli occhi» di fronte alla necessità di una «protezione climatica».
Due anni dopo sarebbe arrivato il primo trattato internazionale, il Protocollo di Kyoto, siglato nel 1997 e sottoscritto da 192 paesi. Un impegno perfezionato nel 2015 dall'Accordo sul clima di Parigi, un'intesa di dimensioni simili (195 paesi aderenti) e mirata a fissare un tetto di 2 gradi centigradi nella crescita della temperatura. Le ambizioni dei trattati, però, non si sono tradotte necessariamente in risultati.
Donald Trump ha aperto uno dei suoi svariati fronti diplomatici annunciando il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo parigino nel 2020, visto che «non crede» alla teoria del cambiamento climatico.
La Cina ha aderito subito a Parigi e siglato alcune intese bilaterali per contenere le emissioni, incluso una partnership con la Ue nel 2005, ma resta a anni luce dal raggiungimento di standard adeguati: le emissioni di CO2 sono cresciute del 4,7% solo nel 2018, sopra alla crescita comunque robusta (+2,5%) registrata negli Stati Uniti. Stretta fra le due potenze e i rispettivi approcci all'emergenza climatica, la Ue sta cercando di affrancarsi e alzare la posta in palio.
Sulla spinta di paesi come la Germania e la Francia di Emmanuel Macron, Bruxelles ha incluso il contrasto al cambiamento climatico fra le priorità della legislatura 2019-2024. Il traguardo fissato al Consiglio europeo del 21-22 giugno era quello di raggiungere un livello zero di emissioni.
Non è andata proprio così, visto che l’ambizione di un accordo per una Europa «neutrale» si è scontrato sull’ostilità della Polonia ed altri paesi. I vertici Ue devono confrontarsi con ostacoli interni ed esterni, fra litigiosità nel perimetro europeo e la scarsa collaborazione (se non l'ostilità) dei suoi partner internazionali.
Come spiega Martin Nesbit dell'Institute for European environmental policy, un think tank, la UE è da un lato ostaggio di « una minoranza di paesi riluttanti» a un'azione seria di contenimento delle emissioni. Dall’altro, sottolinea Nesbit, Bruxelles «non può costringere Stati Uniti o Cina a perseguire obiettivi ambiziosi.
Ma può assicurarsi che la sua policy sul commercio incentivi nei fatti una maggiore ambizione in questo senso – dice – In particolare bisognerebbe far sì che le importazioni provenienti da paesi esterni all'accordo di Parigi scontino anche il carbon price (un sovrapprezzo per l'utilizzo di carbonio, ndr)».
Come si esce (forse) dal climate change
Mark Maslin, professore allo University College London, si è dedicato (anche) alla divulgazione scientifica sul cambiamento climatico.
Raggiunto dal Sole 24 Ore, spiega che le priorità in agenda per contrastare il surriscaldamento sono quelle che si leggono, ogni tanto, sulle agende della politica: riforestazione; spingere il più possibile sul passaggio alle rinnovabili; riduzione del consumo di combustibili fossili e un taglio alle sovvenzioni, enormi, che foraggiano l’industria.
Un report del Fondo monetario internazionale stima che il settore ha incassato solo nel 2017 l’equivalente di 5.200 miliardi di dollari in sussidi, con buona pace degli annunci sulla «svolta sostenibile» dell’economia globale. Qualcosa sta già cambiando, a partire dalla sensibilità media dei cittadini (o dei consumatori, a seconda di come li si vuole inquadrare).
Maslin cita l’esempio dei cosiddetti climate strike, gli scioperi contro il cambiamento climatico lanciati dalla giovanissima attivista svedese Greta Thunberg. I suoi appostamenti settimanali di fronte al Parlamento di Stoccolma, con un cartello di protesta, sono lievitati fino alla dimensione di una mobilitazione globale.
Oggi la sua iniziatrice è una star ascoltata dalle istituzioni, ammirata da milioni di follower sui social e detestata da chi l’accusa di essere un prodotto di marketing orchestrato dai genitori. Greta o non Greta, secondo Maslin, stiamo assistendo a «qualcosa di incredibile» nella storia politica.
I giovanissimi non protestano “solo” per un clima alterato dalle abitudini delle generazioni precedenti. Rivendicano un diritto innegabile, quello al futuro: «La politica internazionale si è spaventata per davvero - fa notare Maslin - perché ci sono centinaia di migliaia di persone che dicono: state rovinando il nostro futuro. Comunque lo si veda, è un messaggio politico di rara potenza».