Tre ostacoli tra Europa e auto elettrica

16/05/2019

Fonte: IlSole24ORE

Nei mesi scorsi, due icone della filiera automobilistica italiana hanno manifestato i loro timori sul futuro dell’auto in Europa.

Prima Alberto Bombassei, l’11 febbraio su questo giornale dichiarava a Paolo Bricco che l’Unione europea si è dimostrata un gigante industriale e un nano politico. Non ha fatto nulla per difendere il diesel rispetto all’elettrico visto che l’industria europea è incardinata sull’industria tedesca che è a sua volta incentrata sull’auto e in particolare sul motore diesel.

Qualche giorno dopo Giorgetto Giugiaro, sulle pagine del Corriere della Sera indirettamente aggiungeva che la sfida sull’elettrico nei confronti di Pechino parte con un forte ritardo e l’Europa rischia di dipendere dai cinesi per tutta la componentistica e solo continuando a usare il petrolio si potrà contrastare la Cina.

Sono queste posizioni refrattarie a sostenere la lotta al cambiamento climatico, indubbiamente necessaria, o piuttosto mettono in evidenza alcuni aspetti di puro realismo che spesso vengono tralasciati?

In questi mesi si è parlato a lungo di analisi costi-benefici, aggiungiamo alcuni spunti di discussione al dibattito sull’auto elettrica.

Il primo lo sottolineava lo stesso Bombassei. «In Europa, se smettessimo di produrre auto a gasolio o a benzina e facessimo soltanto auto elettriche (...) un milione di europei non avrebbe più una occupazione».

Il secondo aspetto deriva dall’esperienza diretta di Giugiaro. «Qui non abbiamo le infrastrutture. Quando ho ricaricato la mia auto elettrica (...) è saltata la luce in tutto l’edificio». Non è solo, quindi, una questione di aumentare le colonnine di ricarica ma anche di adeguatezza della rete elettrica, da quella nazionale fino a quella domestica che dovranno essere entrambe opportunamente ammodernate.

Il terzo elemento lo suggerisce la stessa analisi costi-benefici per la Tav per la quale i mancati introiti delle accise sui carburanti, a seguito della realizzazione del collegamento Torino-Lione, sono stati considerati come un costo per la collettività. Non entriamo nel merito, ma è risaputo che per ogni litro di carburante circa un euro è relativo a tassazioni e di conseguenza se lo Stato ci rinuncerà, anche parzialmente, sarà un aggravio per le sue finanze.

Queste tre osservazioni, e altre ancora come gli indispensabili incentivi all’acquisto, che come è stato dimostrato sono fortemente correlati con le vendite, o lo smaltimento delle batterie, pongono in evidenza una questione irrisolta: il cambiamento di paradigma avverrà solo se sarà sostenuto sensibilmente dallo Stato. Uno scenario molto probabilmente realizzabile solo dove il debito pubblico è limitato se non irrisorio. In Norvegia, dove si registra la maggiore diffusione di veicoli elettrici, il debito pubblico sul Pil è pari al 37%, ma in altri contesti il passaggio potrà essere effettuato solo tramite nuova fiscalità, come è successo in Francia con la carbon tax e in Italia con l’eco-bonus/tassa.

Le reazioni e le parziali retromarce politiche sono risapute, quello che emerge è la forte contrapposizione tra chi non è disposto a finanziare con le proprie tasse la transizione energetica e i fautori delle politiche ambientaliste.

Gli eventi francesi evidenziano una verità spiacevole: l’aumento delle accise sui carburanti grava soprattutto sui più poveri (proprietari di auto più inquinanti) e su chi vive nelle periferie o nelle zone rurali che usa l’auto per andare a, o per, lavorare, e dove magari sono localizzate anche le centrali elettriche. Ma anche in Italia, con le dovute distinzioni, la percezione è simile per chi acquisterà una Fiat Qubo 1.4 a benzina (14.500 euro da listino) che sosterrà con 1.100 euro chi immatricolerà una Smart fortwo Youngster elettrica (24.200 euro da listino), senza considerare le rimostranze delle imprese della filiera e dei sindacati visto che nessun modello beneficiato è prodotto in Italia.

Il timore è fondato, la nuova mobilità rischia di generare forti contrasti sociali, mentre come da più parti si afferma, in primis l’Istituto motori del Cnr, che nelle loro ultime versioni, i motori a gasolio inquinino, complessivamente, meno di quelli ibridi e addirittura meno delle vetture elettriche se si considerasse anche la fabbricazione delle batterie.

Ben venga la mobilità a zero emissioni, purché il passaggio vada di pari passo con un approvvigionamento energetico sostenibile (generata da fonti rinnovabili) e con una transizione tecnologica che sia il più graduale possibile.

Soprattutto la risposta dovrà essere sistemica, coinvolgendo tutti i livelli di governo, dall’Unione europea fino al consiglio comunale, e considerando tutti i fattori in gioco, in particolare l’impatto sociale e il sistema produttivo.