Dodici mesi per eliminare la plastica: caccia alle (insospettabili) alternative

21/02/2020

Fonte: corriere.it - Economia - Ecologisti in cucina

La direttiva del Parlamento europeo parla chiaro: dal 2021 gli oggetti monouso saranno fuorilegge. Partita la caccia a soluzioni alternative per conservare gli alimenti: dalle bucce del pomodoro al carapace dei crostacei, agli esoscheletri dei coleotteri.

Gli avanzi di agar agar — un tipo di alga molto usato in cucina — per realizzare confezioni di prodotti alimentari secchi, come pasta o biscotti. L’idea è della designer cilena Margarita Talep che è riuscita a mettere a punto una speciale plastica — a base biologica e quindi priva di sostanze derivate dal petrolio — in grado di dissolversi in tre mesi, senza lasciare tracce inquinanti nell’ambiente. Segno che il motto «da scarto a risorsa» è realtà. «La rivoluzione plastic free è in atto», dichiara Mario Malinconico, direttore di ricerca presso l’Istituto per polimeri, compositi e biomateriali Cnr di Pozzuoli, Napoli. E non è solo una questione di buon senso.

Cosa dice la legge in Europa

La direttiva 2019/904 del Parlamento europeo parla chiaro: dal 2021 le plastiche monouso saranno fuorilegge. A far data dal 2025 il 25 per cento delle bottiglie dovrà essere costituito da materiali riciclati. Mentre entro il 2029 l’obiettivo sarà quello di recuperare almeno il 90 per cento dei contenitori per bevande, acqua inclusa. Se non ci atterremo a questi obiettivi, nel 2050 — si legge in una relazione della Ellen MacArthur Foundation con il World Economic Forum — gli oceani arriveranno a contenere più recipienti plastici che pesci. Sempre Malinconico spiega: «Quella delle alghe è una delle vie percorribili. Crescono i progetti virtuosi, in Italia e all’estero, che stanno regalando una seconda esistenza ai rifiuti organici. Ad esempio, da un’intuizione nata in collaborazione con il Cnr e l’Istituto di chimica biomolecolare, siamo riusciti a salvare dal macero tonnellate di bucce residue della lavorazione dei pomodori, per farne contenitori in plastica biodegradabile. Capace cioè di esaurirsi per effetto dell’azione corrosiva dei microorganismi che se ne cibano».

E LA GUIDA MICHELIN, CON I PIÙ GRANDI CHEF DEL MONDO, ANNUNCIA LA SVOLTA PER UNA GASTRONOMIA SOSTENIBILE

La pellicola fatta con le patate

La stessa (felice) sorte tocca ad altre fonti presenti in natura: fibre di legno, lino, canapa e bambù, barbabietola da zucchero, fecola di patate e amido di mais, tutti destinati a trasformarsi in pellicole e vaschette per alimenti, posate, bicchieri e cannucce che, una volta eliminati, non impattano sull’ecosistema. Anche i gusci delle uova ben si prestano alla produzione di bioplastiche, simili per aspetto, resistenza e flessibilità ai derivati del petrolio. A differenza di questi, però, non necessitano di incenerimento per essere smaltiti e «il loro degradarsi — continua Malinconico — origina un compost ricco di sostanze organiche da usare come fertilizzante per la rigenerazione dei terreni».

Uno sguardo al futuro

Sembra, insomma, che in natura ci sia tutto. Serve lavorare di ingegno per trovare un maggior numero di alternative alle plastiche monouso. Il futuro si profila interessante. L’Europa è in prima linea nello sviluppo di tecniche di produzione innovative. La designer polacca Roza Janusz, ad esempio, ha scoperto che aggiungendo zucchero e altre sostanze organiche alla kombucha — bevanda fermentata a base di tè originaria della Manciuria, nell’Asia nord orientale — «in due settimane si genera un prodotto bio che, plasmato, diventa contenitore per alimenti di scarso peso. Ci puoi mettere un’insalata, dei semi, una manciata di frutta secca e, al termine dell’utilizzo, lo puoi mangiare: il sapore è simile al sidro di mele. O gettare via: si decompone nel terreno». Arriva dalla Rudn University di Mosca la startup che recupera i rifiuti dell’industria della pesca, in particolare i carapaci dei crostacei, per farne film antimicrobici. Capaci, spiegano i ricercatori, inibiscono la crescita di virus e batteri nocivi alla salute dell’uomo.

Un involucro salvacibi in cera d’api

È italiano, invece, l’involucro per cibi in cera d’api. «L’idea della “pezza” — spiega Massimo Massarotto, veneto trapiantato a San Francisco, con un solido background nel marketing e nel brand management — arriva da mia moglie Molly. Siamo partiti dal cotone, di agricoltura biologica e filiera sostenibile, e vi abbiamo aggiunto resina di pino, olio di jojoba e cera d’api, fortemente antisettica. Ne è uscito un materiale lavabile a freddo e riutilizzabile (apepak.it), adatto a conservare meglio la gran parte degli alimenti. Eccezion fatta per carne cruda e pesce: i succhi che rilasciano rischiano di danneggiare la struttura della pezza. Perfezioneremo. Il passo successivo? L’individuazione di imballaggi per frutta e verdura, sempre a base di cera d’api, il cui potere antibatterico prolungherà la vita dei vegetali trasportati».

Verso una (vera) eco-revolution

Nei prossimi anni le bioplastiche a uso alimentare potrebbero persino essere il frutto della lavorazione dell’esoscheletro di alcuni tipi di coleotteri. Il che fa arricciare il naso, ma il fine resta inappuntabile: ridurre al minimo i derivati del petrolio in cucina fino a eliminarli del tutto.

«Occorre agire trasversalmente. Le startup sono determinanti, ma per innescare una vera eco-rivoluzione devono coinvolgere l’intera filiera», avverte Giuseppe Sarua Cinquegrana, tra i creatori — insieme a un board di biologi marini, accademici, esperti di certificazioni europee — di un progetto italiano chiamato Plastic free certification. «Con la nostra startup, la prima al mondo, aiutiamo i ristoratori a liberarsi di una sostanza infestante, coinvolgendo, alla base, fornitori, produttori, distributori. Insieme valutiamo l’utilizzo di contenitori alternativi: le vaschette in polistirolo bio al posto di quelle classiche o le retine in amido di mais, smaltibili nell’umido. Se i grandi ristoranti del mondo bandiranno i prodotti venduti come plastic free, che in realtà non lo sono, la lotta a questo tipo di inquinamento avrà una svolta concreta».

Dagli chef stellati alla Michelin: è mobilitazione globale

Una provocazione che sta suscitando l’interesse di chef di fama mondiale. Su tutti, Dominique Crenn, la sola cuoca francese ad avere ottenuto tre stelle Michelin negli Stati Uniti per il suo «Atelier Crenn», a San Francisco, California. E poi i bistellati Alex Atala che a San Paolo, Brasile, gestisce il «D.O.M.», Yoshihiro Narisawa, chef-patron de «Les Créations di Narisawa», a Tokyo, Giappone, e Julien Royer del ristorante «Odette», Singapore. «Tutti decisi a ottenere la certificazione — rivela Sarua —. Un onore per noi che puntiamo ad avere un ambasciatore in ogni continente, così da creare una rete etica planetaria. Siamo a buon punto».

In attesa, anche la guida Michelin, lo scorso gennaio, ha annunciato la sua svolta green con l’introduzione di una speciale selezione di gastronomia sostenibile. Obiettivo? Accelerare il cambiamento perché come sottolinea il biologo marino Silvio Greco nel suo ultimo libro, La plastica nel piatto. Quando e come siamo diventati plasticofagi (Giunti), «non c’è altro tempo da perdere».