L’inganno dei biocarburanti

24/08/2020

Fonte: qualenergia.it - Articoli

I costi economici e ambientali, le emissioni e i danni che causa l'uso dei biocarburanti, soprattutto da olio di palma. Il consumo in Italia per veicoli e produzione elettrica.

Biocarburanti. In dieci anni in cui è prevalso il greenwashing, abbiamo pagato la deforestazione del mondo con il pieno carburante e con le bollette elettriche. Senza dircelo.

Oggi si può cambiare, ci sono proposte a Parlamento e Governo. Oltre dieci anni di politiche di sostegno e incentivazione delle rinnovabili, soprattutto in materia di biocarburanti e bioliquidi, hanno aumentato il consumo di olio di palma e di soia, le cui nuove piantagioni sono la principale causa di deforestazione mondiale.

Il consumo mondiale di questi oli alimentari è stabile, ma si è accresciuto non solo nei detergenti, ma soprattutto nei biocarburanti (diesel) e nelle bioenergie (elettricità).

Il 67% in Europa e, oltre il 70%, in Italia (vedi grafico). Nel 2019 i conducenti europei hanno bruciato nei loro motori ventidue volte più olio di palma di quanto ne abbia usato la più grande multinazionale dolciaria del mondo.

Di anno in anno lo sfruttamento energetico della palma è aumentato: mentre gli usi alimentari, per prodotti d’uso quotidiano come pane, gelati, crema di nocciole, cioccolato, margarina, shampoo e detergenti è sceso in Europa al minimo storico di 2,8 milioni di tonnellate, gli usi energetici non hanno smesso di crescere sino a raggiungere 5,7 milioni di tonnellate, come documentato dalla Ong Transport & Environment (T&E) sulla base dei dati di Oilworld, il riferimento del settore per i mercati degli oli vegetali.

L’olio di palma nei motori dei veicoli

Su un totale di oltre un milione di tonnellate di olio di palma bruciato in Italia, la metà è finita nei serbatoi delle automobili e dei camion: almeno 584 kt (migliaia di tonnellate) o derivati dalla sua lavorazione (Pfad, acidi grassi derivati, e Pome, effluente finale dei mulini), secondo quanto afferma il Rapporto Statistico 2018 pubblicato il 30 dicembre 2019 dal Gse, soggetto delegato al monitoraggio ufficiale delle fonti energetiche rinnovabili.

Per essere usati in miscela con il gasolio fossile (mediamente 3%) gli oli vegetali sono trattati in bioraffinerie (ne abbiamo trovate sei) che utilizzano diverse tecnologie: il Fame (Fatty acid methyl ester, estere metilico degli acidi grassi) e l’Hvo (Hydrogenated vegetable oil, olio vegetale idrogenato).

La produzione di Fame è più semplice, richiede investimenti inferiori, è alla portata di fabbricanti più “piccoli”, talvolta maggiormente legati ai cicli agroindustriali per sfruttarne al meglio gli scarti.

La produzione di Hvo avviene in impianti di tipo petrolchimico, appartenenti alle compagnie petrolifere (Eni, Total nella bioraffineria Med di Marsiglia), e utilizza in larga misura olio di palma e olio esausto da raccolta differenziata (in Italia appena 31 kt di origine nazionale).

Purtroppo, le statistiche non distinguono tra biodiesel Fame e Hvo. L’Italia ha prodotto nel 2019 (secondo Oilworld) usato nelle bioraffinerie nazionali ben 840 kt di olio di palma, parte dei quali (circa 300 kt) è stato esportato in altri Paesi europei.

Eni, a Porto Marghera e a Gela (entrata in produzione a metà dell’anno scorso) ha prodotto 310 kt di biodiesel Hvo da 246 kt di olio di palma, esportandone circa tre quarti, come ci ha comunicato ufficialmente nel corso dell’assemblea degli azionisti del 13 marzo scorso.

Come si può notare la produzione nazionale usa in minima parte la capacità produttiva esistente: il mercato è occupato da traders, commercianti, che vendono biodiesel o olio di palma più contenuti direttamente alle compagnie di distribuzione di prodotti petroliferi.

La bioraffineria Musin Mas di Livorno è di proprietà indonesiana (acquistata nel 2013 e poi ampliata, 30/40 dipendenti) che, sfruttando l’acquisizione nel 2015 di un’area portuale di diecimila mq, si caratterizza per un vivace import ed export sia di olio di palma che biodiesel.

Posizione strategica anche per la Bunge (Novaol) di Porto Corsini (il porto di Ravenna), che ospita oltre alla produzione di biodiesel anche impianti la produzione di oli vegetali a uso alimentare e farine a uso zootecnico.

A questi principali impianti si aggiungono bioraffinerie più piccole, che non compaiono in mappa, come la Dp Lubrificanti di Aprilia o la Sapio Fuel di Brescia (produzioni di qualche decina di migliaia di tonnellate), associati ad Assobiodiesel, che vendono quasi esclusivamente a petrolieri nazionali.

Un panorama composito quindi, che fa stimare (Assobiodiesel -2017) un import pari a 872 kt di biodiesel, un export 343 kt e un consumo nazionale di 1.205 kt (1.377 kt nel 2018, secondo Gse), bruciati nei motori di auto e camion nazionali.

L’olio di palma per produrre elettricità “verde”

647 kt di olio di palma e derivati (Pfad) e 65 kt di olio di soia sono dichiaratamente usati in Italia per produrre elettricità “verde” incentivata per legge, stando alle dichiarazioni degli stessi produttori al Gse per il 2018, per vedersi riconoscere i certificati e altre forme di sussidio.

L’olio di palma costituisce il 69% del combustibile usato da 447 piccole centrali costituite da generatori diesel (in genere di potenze superiori ai 5 MW), sparse in tutta Italia, talvolta incluse in impianti produttivi, usati per l’autoconsumo elettrico: si trovano mappati nel rapporto annuale di Legambiente “Comuni rinnovabili 2020”.

Quasi tutti impianti entrati in funzione nel 2012. Un motore diesel di 6 MW produce un inquinamento paragonabile a 20 grandi motrici stradali, grandi camion articolati, che percorrono le autostrade italiane: se bruciano olio di palma e di soia derivati da piantagioni al posto di foreste tropicali, aumentano anche le emissioni di CO2.

Sfugge completamente il vantaggio rinnovabile, verde e di economia circolare, concepito dieci anni fa dal legislatore: a mitigare il danno ci penserà il termine del periodo di incentivazione che dovrebbe scadere per questi impianti tra il 2021 e il 2028. Senza accorciare il periodo d’incentivazione, basterebbe che la legge non riconoscesse come rinnovabile l’olio di palma e di soia, in quanto a rischio distruzione forestale.

Chi fornisce questi impianti? Nella gran parte dei casi traders che commercializzano direttamente gli oli vegetali, in taluni casi società di rappresentanza o agenti commerciali di produttori indonesiani o malesi.

Peggio delle bioraffinerie: questi non devono neppure prevedere studi Lca (ciclo di vita del prodotto), certificazioni o dichiarazioni ambientali, pagano il trasporto, affittano serbatoi e incassano dal gestore della centrale elettrica inquinante.

Pagare, senza saperlo

Secondo il Gse (Rapporto Attività 2018) il sopraprezzo complessivo dell’aggiunta di biocarburanti (valore dei certificati “Cic” scambiati moltiplicato per le tonnellate di biocarburante immesso al consumo) nel 2018 è stato pari a 600 milioni di euro.

È sempre il Gse a spiegare chi paga questi 600 milioni: ogni anno la famiglia italiana media proprietaria di un’auto che fa mille litri di pieno (benzina o gasolio) spende 16 euro in più, l’1% del prezzo del carburante.

Poiché secondo la stima Gse l’olio di palma e gli acidi grassi derivanti dal trattamento dello stesso (tutto d’importazione indonesiana) consistono almeno nel 45% del consumo complessivo, è ragionevole stimare il costo finale per il consumatore, pari ad almeno 260 milioni di euro, che possiamo alzare a 300 milioni di euro tenendo conto dell’aumento consumo 2019: tanto spendiamo per deforestare il Borneo e Sumatra.

Questo è un “sussidio ambientalmente dannoso”, pagato per legge dagli automobilisti italiani. E oltre al danno, la beffa, cioè l’inganno di spacciarlo come “green” e “rinnovabile”.

Sempre nello stesso rapporto il Gse valuta il costo delle politiche incentivanti sul kWh “verde” da bioliquidi, prodotto usando per il 79% olio di palma, di soia e loro derivati: si tratta di 477 piccole centrali (gruppi diesel) per una potenza nominale di 760 MW, che hanno generato nel 2018 circa 3.745 GWh, sussidiati nello stesso anno con la bellezza di 751 milioni di euro (circa 20 centesimi al kWh), tra ex certificati verdi, tariffa omnicomprensiva e altri provvedimenti minori.

E chi paga? Noi, famiglie e imprese con la bolletta elettrica. Calcolando il 79% di bioliquidi dannosi su questa cifra, si tratta di quasi 600 milioni di euro all’anno per contribuire a distruggere foreste nel mondo. Alla faccia del “certificato verde”.

In totale, per bruciare oli di palma e di soia, possiamo stimare che famiglie e imprese, tra bollette e caro benzina, hanno speso quasi 900 milioni di euro per sussidiare legalmente importazioni e combustione inquinante di oli alimentari importati (solo palma e soia).

Crimine ambientale internazionale

L’aumento del consumo di olio di palma e di soia è tra le cause primarie di deforestazione, perdita di biodiversità e cambiamento climatico: le coltivazioni sorgono dove una volta c’erano torbiere o foreste umide tropicali: nel Borneo, in Amazzonia e in Africa.

Ad affermarlo sono gli atti e gli studi della Commissione Europea (vedi il Regolamento delegato 2055/2019 del 13 marzo 2019 e il Report Globiom). La distruzione forestale è causa di un aumento di CO2 in atmosfera e per questa ragione la combustione di un litro di olio di palma provoca il triplo delle emissioni di CO2 del normale gasolio fossile, uno di olio di soia, il doppio. Per coltivare nuovo olio di palma si sottrae il 45% del terreno a foreste vergini, il 9% per la soia.

È il recente Rapporto Ipcc (Climate Change and Land, agosto 2019, redatto dal Panel scienziati Onu sul cambiamento climatico) su clima, desertificazione, degrado del suolo, gestione sostenibile del territorio, sicurezza alimentare e flussi di gas serra negli ecosistemi terrestri, ad affermare definitivamente che ci sono limiti all’uso di coltivazioni a scopo energetico.

Come esempio in negativo, sono riportati gli studi sull’uso dell’olio di palma e si sottolinea come i sistemi di certificazione delle produzioni (a partire dal 2008) non abbiano ancora dato i risultati sperati. L’inchiesta pubblicata il 25 maggio scorso su “Il Fatto Quotidiano” ha dimostrato che i fornitori Eni di olio di palma certificato e le relative piantagioni sono spesso interessati in migliaia di casi di incendi di foreste e essicazione di torbiere in Indonesia, Sumatra, Papua.

Il 2019 è stato un anno terribile per le foreste indonesiane: un recente Report della Banca Mondiale, gli incendi boschivi nel corso della stagione secca (giugno-ottobre) sono stati talmente devastanti che hanno provocato da chiusura di scuole, strade, aeroporti e attività economiche causando un danno diretto di 157 milioni di dollari, mentre oltre 900 mila persone hanno accusato patologie respiratorie.

La foresta data alle fiamme per preparare il terreno alle coltivazioni ammonta a oltre 942mila ettari e poiché circa il 44% delle aree bruciate erano all’interno di torbiere, si stima che le emissioni di carbonio degli incendi nel Paese siano quasi il doppio di quelle derivanti dai roghi appiccati in Amazzonia quest’anno.

Tra gennaio e novembre 2019, secondo il Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine le emissioni di CO2 avrebbero superato la soglia delle 720 megatonnellate, poco meno del doppio delle emissioni italiane.

Quasi tutto l’olio di palma importato e bruciato in Italia è di origine indonesiana e, in misura minore, malese, i due principali produttori mondiali. Entrambi i Paesi hanno perso, in questo millennio, oltre 33 milioni di ettari di superficie forestata: un territorio grande quanto Italia e Svizzera considerati insieme!

Per tutte queste ragioni Legambiente ha richiesto ufficialmente al Ministero dell’Ambiente di includere nell’elenco dei Sad (Sussidi Ambientalmente Dannosi) i benefici legalmente riconosciuti (come i Certificati Immissione al Consumo per i biocarburanti o i così detti “ex Certificati Verdi” per l’elettricità) le energie ricavate da olio di palma, di soia e derivati comunque classificati.

Una campagna per cambiare Legambiente ha proposto al governo italiano di abbandonare i sussidi di legge all’olio di palma entro la fine 2020: già 60mila firme alla petizione su Change.org/unpienodipalle.

Il 15 gennaio scorso l’Autority, su segnalazione Legambiente, Mdc e T&E, ha condannato a 5 milioni di multa per “greenwashing” la principale società petrolifera nazionale a proposito della pubblicità del prodotto Eni-diesel+ (80-90% di olio di palma e derivati – Pome).

Eni ha ricorso al Tar contro l’Autority e Legambiente si è costituita al fianco dello Stato in difesa del provvedimento. Come risposta a Legambiente, all’assemblea societaria del 13 maggio 2020, Eni ha annunciato che entro il 2023 abbandonerà l’uso dell’olio di palma e conterrà al 20% gli altri oli alimentari nella produzione di biodiesel. Una prima rilevante vittoria per l’ambiente; ma Eni rappresenta “solo” un quarto delle importazioni dell’olio di palma bruciato in Italia, e tutti gli altri?

A gennaio 2020 il governo ha presentato alle Camere un disegno di legge delega per recepire una serie direttive comunitarie, tra le quali la così detta REDII, la nuova direttiva quadro che disciplina le energie rinnovabili in tutta Europa per i prossimi dieci anni: una occasione fondamentale per non ripercorrere gli errori del passato e promuovere davvero lo sviluppo accelerato della decarbonizzazione (vedi uscita dal carbone, petrolio e metano).

Perché un tale percorso sia credibile, occorre che vengano al più presto esclusi i sussidi alle fonti energetiche che accrescono le emissioni dirette o indirette di biossido di carbonio, premino invece, anche con “crediti d’immissione al consumo” (Cic), anche la ricarica elettrica da fonti rinnovabili “vere”, le flotte elettriche (ad esempio di taxi, sharing mobility) o aziende di trasporto, gli operatori ferroviari (persone e merci).