Recovery Fund, perché l’industria dei combustibili fossili non dovrebbe ricevere finanziamenti
Fonte: 24plus.ilsole24ore.com - Scenari
Nel Parlamento Europeo si discute dell’opportunità di includere o meno aiuti per progetti legati a carbone, petrolio e gas: «Bisogna investire nel futuro, non nel passato»
La prossima data chiave per la definizione del Fondo europeo per la ripresa e resilienza, Next Generation Eu – o Recovery Fund – sarà il 9 novembre, quando le due commissioni centrali del Parlamento Europeo, quella per gli Affari economici e Bilancio, voteranno il via libera ai 672,5 miliardi della Recovery and Resilience Facility, che dovrà poi essere riconfermata entro la fine del mese durante una sessione plenaria.
Il punto centrale di questa votazione sono le regole su come sborsare questi fondi (312,5 miliardi a fondo perduto e 360 in prestiti), una cifra monstre, definendo chiari paletti per chi può o non può essere incluso nei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (PNRR). Una partita economica senza pari nella storia recente dell’’Unione.
Proposta per escludere combustibili fossili dal Recovery Fund
Una delle proposte più contestate, sebbene allineata con i principi del Green Deal, è quella votata dalla commissione parlamentare europea per l’Ambiente il 12 ottobre, per escludere i combustibili fossili dal Fondo per la ripresa. Niente soldi per nuovi gasdotti, per progetti di carbon capture and storage e idrogeno grigio. Nella proposta, i deputati hanno anche approvato l’uso di una classificazione delle spese “green” in base al nuovo regolamento sulla tassonomia dei finanziamenti sostenibili che sostituisce l’attuale classificazione, i Rio Markers, che sono datati (sono stati introdotti nel 1998) e inadeguati.
Se venisse approvata dal Parlamento, potrebbe essere una decisione storica, un vero e proprio spartiacque e un segnale fondamentale della fine dell’epoca fossile, commentano vari intervistati. Ma al momento da Bruxelles non arrivano buone notizie. «Quanto emerge dai negoziati delle commissioni Affari economici e Bilancio (la decisione è delle commissioni congiunte, ndr) è davvero preoccupante», commenta Luca Bonaccorsi, direttore finanza sostenibile di Transport & Environment (T&E). «Tutte le condizioni “green” introdotte dalla commissione ambiente sono state stralciate: l’ambizione climatica è stata ridotta dal 47 al 37% del budget; cancellato l’uso della nuova tassonomia per gli investimenti sostenibili e mantenuti i pessimi Rio Markers per giudicare gli investimenti; nessuna traccia dell’esclusione dei combustibili fossili. Se questo fosse il risultato finale sarebbe inaccettabile e dovremo ricorrere alla plenaria per rettificare una posizione degna del secolo scorso».
«Investiamo nel futuro, non nel passato»
Per Pascal Canfin, presidente della commissione Ambiente e autore della risoluzione, «si sta definendo la strada per una vera ripresa verde» dalla crisi del coronavirus. «Non ci può essere nessun finanziamento per l’industria dei combustibili fossili: investiamo per il futuro e non nel passato». Tenere la rotta è l’imperativo di una parte del mondo delle imprese e della società civile per difendere il successo alla commissione Ambiente.
«Limitare l’aumento della temperatura a 1,5 ° C richiede l’eliminazione graduale del gas da fonti fossili al più tardi entro il 2035 e lo stop immediato all’allocazione di risorse pubbliche per progetti sul gas fossile», ha affermato Esther Bollendorff del Climate Action Network Europe. «Le commissioni Affari economici e Bilancio devono confermare questa ambizione».
Ariadna Rodrigo, portavoce Ue di Greenpeace sulla ripresa verde, ha avvertito che «l’industria dei combustibili fossili ha ancora molti alleati nel Parlamento Ue e soprattutto nei governi europei».
L’attenzione di lobbisti e gruppi di pressione è fortissima dato che resta da vedere se il Parlamento riunito in plenaria riceverà un testo fortemente annacquato da queste raccomandazioni e se gli Stati membri accetteranno il principio di escludere i combustibili fossili dai finanziamenti quando concorderanno la loro posizione comune nel Consiglio dei ministri dell’Ue. Secondo le procedure, Parlamento e Consiglio Europeo devono raggiungere un accordo su un testo identico prima che il fondo venga adottato.
«Nel settore energetico bisogna smettere di investire su attività legate a carbone, petrolio e gas», commenta Eleonora Evi, europarlamentare M5S. «Per questo, è stato fondamentale approvare in commissione Ambiente un emendamento che esclude gli investimenti in combustibili fossili dalla copertura RRF, e sono oltremodo felice che il mio voto sia stato determinante per questo risultato. Ci auguriamo ora che le commissioni competenti – Affari economici e Bilancio – possano integrare questo divieto nel testo finale del Regolamento».
La proposta italiana
L’Italia intanto cerca di giocare in attacco. Il 27 ottobre un gruppo di oltre 100 imprenditori e ceo del mondo industriale italiano ha presentato un appello per rendere gli investimenti europei più ambiziosi e adeguati alla sfida di una transizione ecologica e climatica. La richiesta, coordinata dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, verte su tre capisaldi: ambizione climatica per aumentare la quota di finanziamenti dedicati al clima del Recovery Fund, criteri climatici stringenti per indirizzare gli investimenti, una lista di esclusione delle attività anti-clima da non finanziare.
L’appello, firmato da importanti realtà industriali (Enel, Edison, Erg, Novamont, Poste Italiane, Conou, Illy) è rivolto ai parlamentari italiani, ai rappresentanti italiani nel Parlamento Europeo e ai membri del Governo italiano per sostenere che le proposte europee per il clima e l’ambiente siano rese più incisive, in vista della negoziazione relativa alla versione finale del pacchetto di ripresa europeo post Covid.
Nello specifico il documento chiede di portare dal 37% al 50% la quota di investimenti della Recovery and Resilience Facility destinati a progetti favorevoli al clima, di confermare il taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 e di mobilitare 350 miliardi di euro all’anno di investimenti per il clima e l’energia a livello europeo.
Per quanto riguarda i nuovi criteri climatici per gli investimenti, «serve adottare una metodologia chiara per riconoscere gli investimenti favorevoli al clima, come quella definita dal regolamento europeo per la tassonomia per la finanza sostenibile», spiega Edo Ronchi, ex-ministro dell’ambiente e presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile, «che già esiste e per questo deve essere rispettata».
Per la necessità di una “lista di esclusione”, infine, no ai finanziamenti per progetti incompatibili con il taglio delle emissioni al 2030 e con l’obiettivo della neutralità entro il 2050. Secondo Francesco Starace, ad di Enel, in un commento inviato al Sole 24 Ore a supporto dell’appello, «oggi l’Europa ha di fronte a sé la possibilità di confermare la sua leadership nella green economy. Si tratta di un’opportunità storica che le imprese riusciranno a cogliere solo mettendo la sostenibilità al centro dei propri investimenti e delle strategie di business; abbandonando definitivamente modelli di sviluppo ormai superati».
Gli appelli di società civile e imprese
In queste ore numerosi europarlamentari stanno ricevendo appelli come questo, dalla società civile e dal mondo delle imprese. «Va anche aggiunta la necessità di misure per sostenere il taglio ai sussidi ai combustibili fossili», spiega Serena Giacomin di Italian Climate Network.
Responsabilità e sostenibilità
Investire in infrastrutture per i combustibili fossili in Europa è diventato troppo costoso e inutile: questo il punto di vista di numerosi investitori istituzionali e del mondo della finanza. Secondo Vincent Mortier, deputy chief investment officer di Amundi «gli operatori finanziari sono chiamati a una maggiore responsabilità nei confronti della società: serve investire in progetti legati alla transizione energetica ed escludere i titoli delle aziende che contravvengono questi obiettivi».
Per Luca Bonaccorsi «il fondo Next Generation Ue dovrebbe ricostruire l’economia dell’Unione Europea devastata dalla pandemia e sarà interamente pagato dalla prossima generazione di contribuenti. È giusto che il loro denaro venga investito in un’economia sostenibile. Gli eurodeputati hanno giustamente votato per l’esclusione generalizzata dei combustibili fossili dal fondo di recupero, e i loro colleghi delle commissioni economiche e di bilancio dovrebbero seguirne l’esempio».
Gli impatti sul Pil della ripresa “verde”
Dal 2008 i prezzi del fotovoltaico solare si sono abbassati di oltre il 90%, le batterie per lo stoccaggio dell’energia sono più economiche dell’85% e, in molti Stati europei, il solare e l’eolico sono ora la fonte più economica per la produzione di elettricità di nuova costruzione. Prima della pandemia di Covid-19, l’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) aveva previsto un’espansione del 50% di energie rinnovabili entro il 2024 e ora, nonostante la crisi devastante che stiamo vivendo, le rinnovabili rimangono l’unica fonte di energia che continua a crescere in tutti gli scenari.
«Investire soldi pubblici nei combustibili fossili è investire in una ferrovia a binario morto, una linea che non ha sbocchi, dove il ritorno sugli investimenti è ridottissimo», commenta tranchant Edo Ronchi.
In Italia sono stati pubblicati già vari report a sostengo della ripresa verde degli impatti su Pil ( Ossigeno per la crescita , Ref-E, ) e su occupazione ( Il Green Deal conviene , Italian Climate Network). Secondo l’OCSE, le energie rinnovabili impiegano già più persone per unità di investimento e di energia rispetto alla produzione di combustibili fossili. L’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili stima che, se il mondo dovesse sfruttare appieno il suo potenziale di energia rinnovabile, questa potrebbe creare più di 40 milioni di posti di lavoro entro il 2050. Altri posti di lavoro potranno essere creati investendo in altri settori della green economy.
Secondo l’AIE, l’efficienza energetica, per esempio, ha un notevole potenziale per la rapida creazione di posti di lavoro – fino a 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro all’anno nell’ambito degli sforzi di ripresa – che non è stato ancora sfruttato. Lo stesso vale per il ripristino degli ecosistemi: come riassunto in una recente pubblicazione dell’OCSE, «il ripristino del 15% degli ecosistemi degradati nell’Unione Europea creerebbe tra i 20.000 e i 70.000 posti di lavoro a tempo pieno» e «le opportunità di business nature-positive potrebbero aggiungere fino a 10,1 trilioni di dollari in valore d’affari annuali e 395 milioni di posti di lavoro entro il 2030».
«Anche in Cina hanno compreso che investire in rinnovabili ha un impatto superiore sulla crescita di Pil», ha commentato Corrado Clini, ex-ministro dell’Ambiente nel governo Monti, durante un evento del Festival della diplomazia.
Se il gas non conviene
Persino sul gas, che alcuni hanno ribattezzato come il carburante per la transizione, ci sono perplessità sul fatto che serva a sostenere la crescita dell’infrastruttura. Secondo l’Agenzia dell’Ue per la cooperazione tra i regolatori dell’energia (ACER ) nessun nuovo progetto per incrementare la capacità di trasporto di gas è economicamente fattibile dal 2017, tutti i nuovi progetti sono stati respinti, «indicando uno scarso interesse del mercato per la nuova capacità di trasporto di gas». Ragione per cui i finanziamenti pubblici diventano necessari.
Per Gianni Silvestrini, responsabile scientifico del Kyoto Club, «la Ue ha già il doppio della capacità di importazione di gas di cui ha bisogno, mentre la domanda europea di gas naturale è diminuita dell’11% tra il 2010 e il 2018. E gli scenari futuri vedranno un’ulteriore contrazione della domanda di metano, visto che anche secondo la Commissione Europea essa dovrebbe ridursi dell’80% nei prossimi trent’anni».
Il giudizio è inevitabile. L’uso di risorse di Next Generation Eu comporterebbe di conseguenza il forte rischio di generare stranded assets, investimenti inutilizzabili, anche per la blue economy. Sarà sufficiente per convincere il Parlamento Europeo?