Squeri: “Energia, uno spreco di risorse per mancanza di visione”
Fonte: Tribuna Politica - Intervista di Paola Sesti
“Nel PNIEC - troppo sbilanciato sul vettore elettrico - non compare mai il principio di neutralità energetica, che passa dal sostegno di tutte le fonti rinnovabili e da una maggiore libertà in merito alle scelte tecnologiche”
Ultimo degli otto figli di Elena Moglia e Carlo Squeri - straordinari protagonisti della Resistenza: lui partigiano cattolico e, nel dopoguerra, diretto collaboratore di Enrico Mattei; lei ragazzina sedicenne che durante un rastrellamento, nella primavera del 1944, mette in salvo a rischio della propria vita quel partigiano che diventerà poi suo marito - Luca Squeri vanta una corposa esperienza imprenditoriale, un impegno di lunga data nella rappresentanza associativa e nella vita politica del Paese.
Porta avanti innanzitutto l’attività del padre, come consigliere nazionale, nell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani fondata da Enrico Mattei nel 1947. Imprenditore nel settore carburanti, è tra i fondatori del Centro Italiano per la Previdenza dei Gestori Distributori di Carburante (CIPREG); nel 1994 è presidente dell’Associazione Nazionale Imprese Servizi Autostradali (ANISA) e nel 2003 ricopre la carica di presidente nazionale della Federazione Italiana Gestori Impianti Stradali Carburanti (FIGISC).
Consistente e ricca anche la carriera politica di Luca Squeri. Consigliere comunale - dal 1994 al 2007- a San Donato Milanese, dal 2009 al 2013 è stato Assessore della Provincia di Milano con delega al Bilancio e al Patrimonio. Eletto deputato alle politiche del 2013 per Il Popolo della Libertà, è nominato segretario della IX Commissione Trasporti della Camera. Nel 2018 è rieletto deputato e attualmente è commissario della X Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati, esperto di energia.
“Come stiamo lavorando in questo periodo alla Camera? In maniera caotica; come tutta Italia, del resto. Non aiutano di certo i continui stop and go e l’indeterminatezza nelle indicazioni, che non forniscono mai un quadro preciso della situazione. Non è un momento facile per il Paese, e in Parlamento questo disagio lo si vive e lo si deve anche rappresentare”. Inizia così la nostra conversazione - telefonica, visti i tempi che corrono... - con Luca Squeri, parlamentare, commissario nella X Commissione Attività Produttive della Camera, impegnato in particolare sui temi relativi alla transizione energetica. Nel corso della chiacchierata con Nuova Energia si tratteggia il profilo di una persona gentile e competente, pacata ma ferma nel ribadire le proprie valutazioni su tanti temi: non solo gestione della cosa pubblica e azione di governo, ma anche energia, ambiente, rifiuti e mobilità.
Partiamo dalla cronaca spicciola. Il presidente del Consiglio ha ribadito l’esigenza di “riprendere con la massima lena la discussione sul Recovery Fund. Non possiamo permetterci di ritardare oltre, non possiamo fallire: ne va della credibilità del Paese”. Che ne pensa?
Condivido il concetto espresso da Conte; chi del resto potrebbe non trovarsi d’accordo? Non possiamo permetterci ulteriori perdite di tempo.
Detto questo, il fatto che a fine dicembre il Paese si trovi nelle condizioni di non sapere con la dovuta precisione quello che sarà il contenuto del Recovery Plan e le modalità con cui sarà portato avanti, ci dice una cosa evidente: la compagine di governo è la responsabile dell’estremo ritardo e mostra tratti di incapacità e incompetenza.
Poco capace di avere le idee chiare, poco competente nel proporre un piano che altri Paesi hanno già definito da tempo.
È attuabile l’ipotesi di un “governo di ricostruzione” che veda impegnate con senso di responsabilità forze di maggioranza e di opposizione?
Le difficoltà ci sono, è fuor di dubbio. Tuttavia c’è, anche, la necessità di condividerle. Spero si posa cambiare la guida di questo Esecutivo, mettendo al vertice una figura autorevole e competente. A condizione che ci siano sufficienti forze politiche che la sostengano.
È che quando parliamo di Recovery, parliamo di un piano da realizzare entro il 2026 per una macchina che duri a lungo. Queste risorse non possono essere sprecate per una mancanza di visione politica.
A proposito di risorse, arriviamo al nostro ambito di competenza. PNIEC e Green Deal europeo: per andare oltre una mera dichiarazione di intenti, quali interventi sono urgenti - e attraverso quali traiettorie - per conseguire gli obiettivi sfidanti al 2030 e al 2050?
Inizio con una premessa che mi sta a cuore. Il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima contiene un vizio di origine, un errore di fondo presente sin da quando è stato emanato. È sbagliato nel merito: troppo sbilanciato su una impostazione che mira a intensificare e a incrementare i consumi di elettricità. Il PNIEC rende questo vettore assoluto protagonista,
come se tutto il sistema energetico debba concentrarsi lì, senza prestare attenzione al vero problema: sostituire le fonti fossili con le rinnovabili.
Sbagliando indirizzo porta inevitabilmente a sbagliare traiettoria, anche perché nel Piano non compare il principio di neutralità energetica, che passa dal sostegno di tutte le fonti rinnovabili e da una maggiore libertà in merito alle scelte tecnologiche: non solo eolico e fotovoltaico, ma anche geotermia, idrico, bioenergia devono poter concorrere al raggiungimento di una vera decarbonizzazione.
Le nostre cinque FER...
Le 5FER. Sembrano le componenti di una girl band...
Il paragone è accettabile. Le nostre cinque fonti rinnovabili - nostre perché presenti nel Paese - vanno considerate in gruppo; nell’energia è destinata al fallimento qualunque carriera da duo o da solista. A tutte e cinque – vento, sole, acqua, geotermia, bioenergie –
sia consentito esprimere il giusto potenziale.
Se, come vuole il PNIEC, vogliamo assegnare al vettore elettrico - impiegato in tutti i contesti - il ruolo quasi esclusivo di driver della decarbonizzazione, non possiamo accollare a eolico e fotovoltaico da soli l’onere di produrre l’incremento di energia elettrica necessario per raggiungere l’obiettivo. Nei fatti, semplicemente questo non sarà possibile.
Quando si parla di sviluppo sostenibile, spesso è presente il rischio di centrare il problema solo sulla sostenibilità ambientale, eliminando dai fattori in gioco la sostenibilità economica e quella sociale.
Vero. Ci deve essere la sostenibilità ambientale, è bello pensare di eliminare il carbone al più presto, usare la corrente elettrica per risolvere tutti i problemi... Ma c’è una sostenibilità economica e sociale che deve essere presa in massima considerazione. È importante la capacità di considerare il concetto di sostenibilità in tutti i suoi aspetti.
Il carbone a mio avviso è un problema minore; quello vero è non avere un Piano equilibrato bensì fortemente sbilanciato sulla corrente elettrica e quindi sul gas, fonte che al 2050 dovremo avere avuto la capacità di sostituire.
E aggiungo all’elenco delle sostenibilità necessarie, anche una sostenibilità temporale degli interventi. Se solo ieri nel PNIEC era richiesta per il 2030 una riduzione almeno del 40 per cento delle emissioni di gas serra (rispetto ai livelli del 1990), oggi nell’ambito del Green Deal europeo la Commissione ha proposto di elevare l’obiettivo ad almeno il 55 per cento. Ma il 2030 è già domani.
Il mondo cambia a una velocità impressionante e la crisi che stiamo attraversando ha acuito questo fenomeno. Forse anche in tema di energia e ambiente serve il coraggio di prendersi una comune responsabilità. A suo parere, la nostra classe dirigente è pronta ad abbandonare la demagogia e a collaborare per affrontare una riflessione seria che porti a proposte concrete?
Non esiste una classe dirigente delimitata e circoscritta; è un insieme formato da un sistema variegato e articolato di persone chiamate a una comune responsabilità. Questa assunzione di incarico e di responsabilità, in un sistema democratico come il nostro, avviene attraverso libere elezioni. I cittadini italiani, nell’ultima tornata elettorale, hanno dato la preferenza a una classe dirigente impreparata, inadeguata e incompetente.
Questo difetto lo si può correggere in due modi: con un ricambio nell’Esecutivo oppure sperando nell’umiltà e nella capacità di confrontarsi della classe dirigente. Non tutti devono essere tecnici, ma tutti devono sapersi avvalere di competenze tecniche. Persone pronte a dare risposte ci sono; purtroppo, in questo momento alla guida della comunità nazionale vedo tanta incompetenza e tanto dogmatismo. L’impressione è che questa maggioranza consideri prioritario unicamente il proprio credo: un assolutismo concettuale che è l’esatto contrario di un approccio efficace, pragmatico, sostenibile
“L’economia circolare non si fa senza gli impianti”. È d’accordo con questa affermazione?
E come la si coniuga con la Sindrome Nimby, la frammentazione delle politiche ambientali territoriali, la lentezza delle autorizzazioni che minano la certezza agli investimenti...?
Assolutamente sì, sono d’accordo. E conosco bene gli effetti della Sindrome Nimby, purtroppo molto diffusa, che si può contrastare soprattutto con l’informazione e il coinvolgimento. Già il termine usato per definirla – sindrome – è negativo, indica una anomalia nel pensiero, una deviazione nell’affrontare certi argomenti. Occorre invece spiegare senza preconcetti come funzionano i sistemi complessi e quali sono le tecnologie impiegate.
Nell’ultimo Rapporto Ispra sui Rifiuti Urbani spicca un dato: un milione 569mila tonnellate di rifiuti provenienti da Campania e Lazio che, a causa della grave carenza impiantistica che caratterizza queste regioni, non è possibile trattare nei loro territori. 55mila tir in fila in una ipotetica colonna che va da Napoli fino a Praga...
Sul tema dello smaltimento dei rifiuti il contrasto ideologico resta alto. Gli inceneritori con recupero energetico, ovvero gli impianti che sfruttano la cogenerazione, rappresentano la risposta risolutiva al problema. Si tratta di impianti dotati di tecnologie consolidate e sicure, che garantiscono un elevatissimo controllo sulle emissioni. Tralasciando poi la questione costi. Oltre al danno ambientale causato dall’inquinamento connesso alla movimentazione dei rifiuti, c’è la beffa economica: paghiamo per portare altrove materia prima che altri valorizzeranno producendo energia e calore. Questi sono i frutti dell’incompetenza. Le norme ci sono, molte regioni italiane sono all’avanguardia in questo senso; in altre, specialmente a Sud, si resta molto indietro per mancanza di volontà e per motivi ideologici. Ma, ripeto, il conflitto si risolve solo con la corretta informazione.
La neutralità tecnologica come criterio per affrontare il tema della mobilità sostenibile, intesa come risposta alle esigenze di spostamento delle persone e limitando gli impatti sull’ambiente. Cosa ne pensa?
Senza scomodare Sergio Marchionne, che nel 2017 definì l’auto elettrica “una minaccia all’esistenza stessa del nostro Pianeta”, pochi giorni fa Akio Toyoda, numero uno di Toyota ha rincarato la dose. Secondo Toyoda, i sostenitori dell’elettrico non prendono in considerazione le emissioni di CO2 prodotte dalla generazione di elettricità e, soprattutto, i costi sociali della transizione.
Se tutto il parco circolante nipponico fosse elettrico, il Paese, a suo dire, andrebbe incontro a un blackout. Tralasciando poi le conseguenze nefaste per l’intero tessuto economico: si perderebbero milioni di posti di lavoro e, ciò che è più preoccupante, si renderebbe l’auto privata un “fiore in cima a una vetta”, un bene fuori dalla portata del ceto medio.
In Italia accade più o meno lo stesso. La fotografia è lì da vedere.
In questo momento l’elettrico sembra essere l’unica risposta alla domanda di mobilità sostenibile. Eppure sono tante le questioni che, se affrontate in maniera unilaterale, non verranno mai risolte. Abbiamo i biocarburanti, abbiamo il diesel Euro 6, abbiamo un paniere di risposte efficaci ai problemi dell’inquinamento e della produzione di CO2.
In primavera il lockdown ha mostrato chiaramente come nelle città il traffico veicolare non sia il principale responsabile dell’inquinamento dell’aria, benché sia sempre il principale indiziato. Il teleriscaldamento può essere una risposta?
Devo purtroppo rilevare che su questo tema, come Sistema Paese, siamo veramente molto indietro. È vero che in Pianura Padana c’è problema di concentrazione di inquinamento atmosferico; le Alpi fanno da parabrezza e impediscono che vento e aria possano disperdere le micro-particelle e i gas emessi sia dai trasporti che dal termico. Però a mio modo di vedere la risposta che si dà è sbagliata perché di fatto impedisce di impiegare tutte le soluzioni tecnologiche che abbiamo a disposizione.
Un esempio? La risposta alla nostra battaglia per estendere il cosiddetto Superbonus a biomasse con tecnologia che consente una bassissima emissione di Pm10 e teleriscaldamento efficiente ha prodotto una pezza peggio del buco: la maggioranza giallorossa lo ha reso possibile solo nelle zone non metanizzate per le biomasse e in quelle montane per il tlr, un vero controsenso.
Ha ancora valore oggi una ricerca pubblica nel settore elettrico ed energetico, a servizio dell’intero Paese, in una visione di sistema e per garantire terzietà e indipendenza?
La ricerca pubblica è fondamentale. Va supportata e va sostenuta, perché un conto sono le
cose che si possono fare adesso, un altro conto quelle che si potranno fare nel tempo e che hanno bisogno di progettualità. Solo investendo oggi in ricerca, in un’ottica di sistema, sarà
possibile tenere il passo in un ambito in continua evoluzione e, al momento opportuno, utilizzare nuove tecnologie e nuovi strumenti.
Un’ultima provocazione. Servirebbe un ministero dell’Energia?
Non è con i nomi che si risolvono i problemi. Il ministero dell’Energia in fondo c’è già, si chiama Sviluppo economico, e al suo interno lavorano tecnici capaci, preparati e competenti. Quello che è mancato - e manca – è una visione politica, la volontà di dare indirizzi chiari, ragionevoli e soprattutto sostenibili per il Paese.