Il Carbon Capture and Storage (CCS): una tecnologia che finora ha fallito
Fonte: greenpeace.org
L’idea di “catturare” la CO2 al camino di un impianto, intubarla e stoccarla nel sottosuolo – magari avendola “utilizzata” in qualche processo industriale – è l’obiettivo perseguito dall’industria fossile da oltre un ventennio con risultati finora deludenti e avendo bruciato molti miliardi.
L’obiettivo è salvare carbone, petrolio e gas e farli considerare “a basse emissioni”
L’obiettivo è ovvio: “salvare” i combustibili fossili – carbone, petrolio e gas – che in questo modo potrebbero essere considerati “a basse emissioni” visto che queste tecnologie non consentirebbero comunque emissioni zero.
La maggior parte dei relativamente pochi impianti in funzione serve in realtà a estrarre petrolio da pozzi già in declino produttivo: iniettando CO2 nel pozzo esce più petrolio assieme a una parte (circa il 40%) di CO2 iniettata. Ma l’estrazione aumentata di petrolio significa poi più emissioni di CO2 in atmosfera, per cui il significato ambientale è se non del tutto nullo abbastanza limitato. Altri impianti funzionano in pozzi di estrazione del gas: assieme al gas esce dal sottosuolo una quota minore di CO2 che viene reiniettata come accade in impianti norvegesi.
Una tecnologia fallimentare
Per il resto, al momento, i fallimenti sembrano segnare lo sviluppo di questa tecnologia. In Texas a Petra Nova nel 2020 un impianto collegato a una centrale a carbone dell’azienda NRG è stato bloccato per gli elevati costi. La CO2 poi sarebbe stata utilizzata per estrarre petrolio ma in una fase di bassi prezzi del petrolio i costi non sono sopportabili.
Il processo del CCS è molto energivoro, ragion per cui a Petra Nova un impianto a gas produceva energia (le cui emissioni non venivano abbattute) per catturare la CO2 dal camino della centrale a carbone e usarla per estrarre petrolio. Ad ogni modo, l’impianto di Petra Nova, entrato in funzione nel 2017 e fermato nel 2020 aveva già avuto 367 giorni di fermo tecnico per problemi di funzionamento e, nel complesso, ha “bruciato” un miliardo di dollari di perdite economiche.
Un altro fallimento recente si è registrato quest’anno all’impianto Gorgon della Chevron in Australia utilizzato presso un terminale di liquefazione del gas. Dopo 5 anni di funzionamento i risultati sono stati di una cattura del 24% della CO2 emessa rispetto a un obiettivo dell’80%. La perdita economica ammonta a 3 miliardi di dollari.
Il CCS di ENI a Ravenna
Il CCS è al centro del progetto ENI di Ravenna il cui obiettivo strategico è la produzione di “idrogeno blu”, cioè a basse emissioni di gas serra grazie alla cattura e stoccaggio della CO2. L’idrogeno viene oggi prodotto trattando il gas metano con vapore ad alta temperatura e pressione (un processo noto come Steam Methane Reforming). Si tratta di un processo molto energivoro – viene bruciato di solito gas per produrre questo vapore ad alta temperatura – ed emessa una grande quantità di emissioni non solo per l’uso di energia ma soprattutto per il processo che libera idrogeno ma produce CO2.
Di recente una analisi sul caso americano ha mostrato quanto poco “verde” sia l’idrogeno blu nel contesto di quel Paese. Infatti, conteggiando tutte le emissioni del processo produttivo incluse le “perdite fuggitive” di metano, il vantaggio ambientale dell’idrogeno blu sarebbe di una riduzione solo del 12%. Questo perché le perdite di gas negli USA sono molto elevate anche per le perdite dovute l’estrazione dello shale gas (gas di scisto), che è un processo che prevede molte perforazioni e microfratturazioni della roccia.
In Italia le perdite dalla rete gas sono molto contenute. Ma il gas che utilizziamo arriva da molto lontano e da Paesi – come la Russia – le cui performance ambientali sono molto discutibili e le perdite vanno conteggiate lungo tutto il ciclo produttivo dall’estrazione al consumo. E, dunque, anche nel caso italiano il “vantaggio” ambientale dell’idrogeno blu potrebbe essere molto limitato anche se migliore rispetto a quello calcolato per gli USA.
Infine, i costi: ammesso che un impianto funzioni come previsto, siamo attorno almeno ai 100 € per tonnellata di CO2. Se poi, come in Australia, l’efficienza dell’impianto è meno di un terzo del previsto, i costi sono più che tripli.
L’ENI farà certamente meglio. Ma, questo è il punto politico, non coi nostri soldi.